Leggere un libro è solo metà del piacere: l'altra metà è scassare l'anima al prossimo parlandogliene per far vedere quanto sei colto; motivo per cui su questo blog si discutono in generale libri di un certo spessore e si passa sotto silenzio tutto il contenuto dello scaffale in alto a sinistra, quello con titoli come "Il frustino e la voluttà" o "I segreti del collegio femminile".
Ahem.
Dicevamo.
Il mio ultimo shopping spree in Charing Cross Road mi ha lasciato in possesso, fra gli altri, di tre libri di cui è il caso di parlare qui.
Il primo è What's Left? How liberals lost their way di Nick Cohen. Cohen è una figura storica della sinistra inglese, scrittore, politologo ed editorialista del Guardian, critico accanito del governo Blair e dell'esperienza politica blairiana con i suoi tentativi di far passare soluzioni e politiche tipicamente Tory come "New Labour".
Il libro è in pratica la descrizione di diversi Douglas Adams moments capitatigli nel corso degli ultimi 10 anni: i principali risalgono a quando ha visto una certa sinistra inglese opporsi all'intervento in Kosovo in nome "della pace" (io su questo lo batto, visto che m'è capitato di discutere con compagni che mi sono saltati alla gola quando ho osato suggerire che dopotutto in Bosnia era meglio avere la NATO che un'altra Srebrenica) e a quando ha visto militanti antifascisti iracheni portati in palmo di mano dalla sinistra, come Kanan Makiya, trasformati in "fantocci di Bush" per la grave colpa di continuare a dire del regime quello che avevano sempre detto.
Diversi capitoli sono dedicati ad erorri del passato che Cohen considera analoghi almeno moralmente se non nelle conseguenze pratiche, come l'attivismo pacifista del Bloomsbury Group di Virginia Woolf, che sfociò nell'adesione di diversi suoi esponenti a movimenti filonazisti e nella produzione di più di un proclama antisemita, e l'atteggiamento dei socialisti francesi che in nome della "pace" arrivarono ad isolare Leon Blum, a diffondere la spazzatura antisemita dei nazisti (per dar conto dell'imperdonabile atteggiamento "guerrafondaio" di Blum) e infine a partecipare al governo di Vichy mentre Blum e gli altri antinazisti venivano caricati su vagoni piombati e spediti a Dachau.
Cohen confronta gli errori del passato con quelli che considera gli errori attuali - il sostegno per lo meno morale alla "resistenza" irachena delle autobombe e delle stragi di pellegrini, l'antisemitismo mascherato da antisionismo e giustificato con la solidarietà al popolo palestinese, le astruse e assurde ipotesi di complotto che attribuiscono la responsabilità di tutti i mali del mondo ad un'oscura cricca di supercapitalisti, ebrei (pardon, "sionisti") ed agenti della CIA, il sostegno a qualunque causa oscurantista e regressiva che si dichiari in qualche modo antioccidentale. Il quadro che ne esce non è lusinghiero per la sinistra inglese o europea - e ovviamente ha fatto di questo libro il caso letterario dell'anno: noialtri di sinistra abbiamo un sacco di difetti, ma nella disciplina dello sbranarci fra di noi potremmo vincere l'oro olimpico senza neanche sudare - e quelli più stupidi di noi, come il sottoscritto, lo ritengono anche un fatto positivo che denota un minimo di onestà intellettuale, coerenza e fedeltà a dei principi.
Incidentalmente: vale la pena di leggerlo solo per la definizione degli anni del governo Major. Era come, dice Cohen, rimanere intrappolati in un vagone di treno guasto, e circondati da uno stuolo di contabili disonesti: riuscivano ad essere noiosi e corrotti allo stesso tempo.
Murder in Amsterdam è un libro abbastanza più difficile. Ian Buruma è nato in Olanda ma ha passato molta parte della sua vita in altri Paesi, ed è tornato nel suo Paese d'origine poco dopo la morte di Theo Van Gogh, alla ricerca di un motivo, di una spiegazione per quello che era successo e che stava continuando a succedere in Olanda.
Il libro comincia in maniera relativamente noiosa - almeno per me. Buruma si sofferma molto sulle minuzie dell'evoluzione delle convenzioni sociali olandesi, sulla storia sociale e politica nazionale, e per qualche motivo ho avuto difficoltà a superare i primi capitoli. Il libro si fa man mano più interessante quando comincia a parlare di immigrazione, dei "lavoratori temporanei" reclutati in Nordafrica come manodopera a basso costo e isolati in città-ghetto nascoste alla vista dei lindi borghesi olandesi, quando descrive, abbastanza impietosamente, l'origine e le responsabilità delle tensioni che oggi lacerano la società olandese.
Il quadro che descrive Buruma è deprimente, nessuno è esente da colpe, da Theo Van Gogh, con il suo credere che dipingersi come un giullare lo esimesse da qualsiasi responsabilità per quello che diceva, ad Ayan Hirsi Ali, che ha abbracciato l'ateismo con lo stesso, intollerante spirito missionario/militante con cui aveva abbracciato l'Islam politico dei Fratelli Musulmani, dai predicatori islamisti che cercano di rendere più netta e profonda la separazione fra la società civile olandese e gli immigrati, per poter poi proporre sè stessi e la propria personale versione di Islam come unico riferimento e prospettiva di riscatto, ai politici che si riempiono la bocca di parole come multiculturalismo e integrazione ma non muovono un dito per rendere davvero pari le opportunità di successo o almeno di riscatto sociale.
La descrizione perfetta dell'Olanda moderna è nella scena in cui un predicatore islamista si rifiuta di stringere la mano di Rita Verdonk: un integralista religioso che non si fa problemi ad annunciare pubblicamente il proprio disprezzo per le donne, contrapposto ad una donna che esprime nei suoi discorsi e nella pratica politica un'intolleranza ed un razzismo che commuoverebbero un Calderoli. Non ci sono "buoni" o "cattivi" in Olanda, a leggere Buruma - solo modi diversi di sbagliare.
Ho comprato Londonistan per i motivi sbagliati. Ne avevo sentito parlare molto, aveva suscitato molte polemiche, e l'avevo visto citato, soprattutto come fonte di dati più che di opinioni, in un paio di libri che non mi erano dispiaciuti (The suicide factory, per esempio). Il fatto che le citazioni fossero sempre e solo di dati fattuali, e che le polemiche fossero molto a senso unico, avrebbe dovuto mettermi sull'avviso, ma in un Paese in cui Peter Tatchell ed Outrage! vengono accusati di essere al soldo della CIA e dell'estrema destra inglese per aver contestato le condanne a morte di omosessuali in Iran, ho pensato che fosse il caso di concedere a Ms. Phillips il beneficio del dubbio.
Caso mai ci fosse bisogno di ulteriori dimostrazioni del fatto che sono un pollo.
Dieci pagine sono sufficienti a provare che Ms. Phillips è un'Oriana Fallaci con qualche isterismo in meno e un po' di faccia tosta in più. Venti portano a chiedersi come diavolo abbia fatto a vendere tanto. Trenta portano la risposta: è grazie ai fessi come me che la comprano senza aver capito bene.
A leggere il libro si ha l'impressione che i grossi problemi che ha Ms. Phillips non siano col terrorismo, con le varianti totalitarie dell'Islam politico o con la chiusura di certe comunità immigrate al mondo esterno, con tutte le possibilità di abuso che ne conseguono. No, Ms. Phillips spende molto più tempo a condannare quelle che vede come degenerazioni della società moderna, la separazione netta di Stato e Chiesa, la legislazione sui diritti umani, il riconoscimento di diritti a donne e omosessuali (mi dica, Ms. Phillips, crede che in una società come quella da lei vagheggiata sarebbe permesso ad una donna di divorziare a ripetizione, scrivere articoli e libri violentemente critici dello status quo, e condurre una vita indipendente?), e ovviamente l'immigrazione.
Le fallacie logiche del libro sono troppe per poterle contare. Nel primo capitolo lamenta l'omofobia di diversi leader e predicatori islamisti, per poi condannare nel capitolo 3 l'omosessualità diffusa, e (orrore!) il riconoscimento di diritti alle coppie omosessuali come una delle cause dell'indebolimento della società occidentale.
Nel secondo capitolo si scaglia contro quel grande nemico della società occidentale, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, che il satanico Stato inglese ha addirittura incorporato nelle proprie leggi (Human Rights Act, 1998), e se non fosse irritante sarebbe divertente notare che sceglie un paio di casi abbastanza aberranti, come quello di Shabina Begum, per mostrare quanto questa legge si presti a perversioni dei costumi e delle tradizioni, e poi sia costretta a notare, en passant, che in entrambi i casi gradi di giudizio successivi annullavano le aberrazioni - in altre parole, che tutta la sua argomentazione contro la legislazione sui diritti umani si riduce al fatto che in un paio di casi, quando la legge era nuova, la giurisprudenza era scarsa e le possibilità di abusi elevate, un paio di sentenze intermedie erano aberranti e sono state cancellate in appello, provando che il sistema, tutto sommato, funziona (costa troppo, ma questo è un altro discorso).
Seguono un paio di capitoli sul fatto che Al Qaeda è più forte dell'Occidente perchè loro hanno Allah mentre a Occidente siamo diventati tutti atei o almeno abbiamo laicizzato la società, mentre, mi par di capire, l'unico modo per battere Osama Bin Laden sia avere un amico immaginario più forte del suo; a sentire Ms. Phillips, quasi tutto quello che è venuto fuori dal 1789 in poi è una cattiva idea e ci ha fatto perdere terreno nei confronti della minaccia islamica, e l'unica possibilità per non diventare una teocrazia è, um, diventare una teocrazia: ma almeno, sarà la nostra teocrazia e ai prolet sarà permesso di bere birra nei pub (ma con moderazione: Ms Phillips non tollera che la servitù torni a casa ubriaca dalla propria serata libera).
Il resto del libro è pure peggio. Resuscitate Oriana Fallaci, datele un paio di Tavor, rendetela più religiosa e fatele parlare inglese, ed avrete Melanie Phillips. E poi spiegatemi perchè l'avete fatto, per favore
Due libri su tre val la pena di leggerli. Il terzo è di gran lunga troppo alto per stabilizzare il tavolo della cucina.